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Tatiana Crivelli ( Zürich)



Leopardi commentatore di Petrarca


Leopardi as a commentator of Petrarca
Giacomo Leopardi's commentary on Francesco Petrarca's Canzoniere which he wrote on request of the publisher Antonio Fortunato Stella, was begun in 1825 in Milan and completed in Florence – far from home and from the paternal library. In the letters of those years it is possible to find interesting annotations relating to the progress of the edition. Surprisingly, on more than one occasion Leopardi expresses very negative judgments about Petrarca's poetry. This critical attitude which stands in stark contrast to Leopardi's well-known admiration for the lyrical work of the great master presents a serius dilemma for the literary critic. This essay examines the particular role of the commentary for the Leopardi's critical approach to Petrarca within the wider context of Leopardi's 'petrachism.'


In un brano della nota lettera che, in data 13 settembre 1826, Giacomo Leopardi inviava da Bologna all'editore milanese Antonio Fortunato Stella, subito dopo l'uscita del suo commento alle Rime di Petrarca, si leggono le seguenti parole:

Io le confesso che, specialmente dopo maneggiato il Petrarca con tutta quell'attenzione che è stata necessaria per interpretarlo, io non trovo in lui che pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche, e sono divenuto totalmente partecipe dell'opinione del Sismondi [De la littérature du Midi de l'Europe, cap. X, p. 407. 1a ed. 1813], il quale nel tempo stesso che riconosce Dante per degnissimo della sua fama, ed anche di maggior fama se fosse possibile, confessa che nelle poesie del Petrarca non gli è riuscito di trovare la ragione della loro celebrità.1

Toni forti, e chiari: se Leopardi dovesse scrivere (come vorrebbe l'editore), una Vita del Petrarca da porre a fianco delle Rime, non potrebbe fornire cosa gradita e anzi, lo dice nella stessa lettera, metterebbe su carta soltanto pensieri che "riuscirebbero direttamente contrari all'interesse dell'edizione". Che fine ha fatto il Petrarca modello assoluto di poesia lirica che veniva lodato solo qualche anno prima nello Zibaldone?2 E, soprattutto: dato che – l'abbiamo letto – è stato "specialmente dopo maneggiato il Petrarca con tutta quell'attenzione che è stata necessaria per interpretarlo" che Leopardi sembra aver modificato il suo giudizio di valore, quale ruolo si deve attribuire, nella formazione di questo parere negativo, all'operazione esegetica che Leopardi svolge sul testo del Canzoniere?

Leopardi iniziò a lavorare al commento delle Rime petrarchesche dietro richiesta dello Stella all'incirca nel settembre del 1825 a Milano (dove si era per l'appunto recato su invito dell'editore) e lo proseguì e concluse a Bologna per la fine del giugno dell'anno successivo; l'opera venne dunque composta e pubblicata "fuori casa", lontano (anche mentalmente) da quella Recanati di cui Monaldo (lettera del 25 giugno 1826) lamenta l'assenza nel frontespizio della stampa del commento; la fine di questo impegno coincide con il rientro a casa (secondo quanto emerge nell'Epistolario, in data 9 ottobre 1826 egli ha già inviato all'editore le ultime bozze, e subito dopo inizia ad organizzare il rientro, che avverrà il 3 novembre).




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I due volumi – suddivisi in 4 tomi ciascuno e contenenti rispettivamente le Rime in vita di Laura il primo, quelle in morte, le Rime sparse e i Trionfi l'altro – apparvero per una collezione in piccolo formato proposta dallo Stella con intenti divulgativi, sotto il nome di Biblioteca amena e istruttiva per le donne gentili. La collocazione disturbò alcuni lettori (maschi, si suppone) e Leopardi dovette informare l'editore che una sovracoperta più neutra, destinata a chi non fosse acquirente o sottoscrittore della Biblioteca amena sarebbe stata gradita (lettera del 16 giugno 1826). Malgrado il pregiudizio relativo a questa collocazione sia perdurato nel tempo, il commento ebbe ampia e immediata diffusione e godette di numerose ristampe (Dante Bianchi, in un suo articolo del 1914 sul "Giornale Storico" ha contato 20 edizioni nei primi cinquant'anni)3 la maggior parte delle quali, come d'uso, portate a termine senza l'approvazione dell'autore: la prima ristampa non autorizzata esce a soli quattro mesi di distanza dall'edizione dello Stella (cfr. Epistolario, lettera ad A. F. Stella del 24.3.1827).

Al successo editoriale non parebbe però, almeno a prima vista, corrispondere un altrettanto tenace lavoro preparatorio: per approntare il commento Leopardi impiegò meno di un anno ma, stando a quanto affermato in un'altra lettera (3 luglio 1826 al padre), egli lo interruppe addirittura per cinque mesi "occupati parte in altre cose [tra queste "cose" basti ricordare la traduzione del Manuale di Epitteto, la pubblicazione di una raccolta delle sue Opere e i tentativi di promozione delle Operette morali] parte nello smaniare dal freddo, che mi fece tralasciare affatto ogni studio". Un periodo di tempo dunque decisamente breve, pure per la genialità di un Leopardi, tanto che Carducci nella prefazione al commento petrarchesco4 potè scrivere: "E poi quel grande intelletto, condannato ai lavori forzati d'un commento per le donne e anche pei bambini, finì, che che egli ne dicesse, coll'annoiarsi, e tirò via". Dove il "che che egli ne dicesse" vuole forse controvertire l'affermazione che Leopardi fece all'editore consegnando le ultime parti del lavoro (cito da una lettera del 30 giugno 1826): "Mi lusingo che ella potrà notare che l'Interpretazione non è meno diligente e minuta nel fine che nel principio". E non basta: Leopardi stesso, nella seconda prefazione che scrisse per il commento (siamo un decennio dopo, all'altezza del 1836 e la Prefazione dell'interprete verrà premessa alla ristampa fiorentina apparsa a Firenze per Passigli nel 1839)5 dice di avere da tempo in animo un Saggio di emendazioni critiche delle Rime del Petrarca, il materiale per il quale avrebbe "da più anni in serbo". Ricordo qui, perché ancora non è ho fatto menzione, che l'edizione com mentata da Leopardi segue, tranne che per la punteggiatura (su cui tornerò brevemente tra poco) il testo proposto nell'edizione di Antonio Marsand (Le Rime di Petrarca, con brevi annotazioni di Antonio Marsand, Firenze, Molini, 1822), che suddivideva le liriche del canzoniere in vita e in morte di Laura, e che – come Leopardi stesso riconosce nella seconda prefazione – non è "esente da lezioni false". Marsand aveva a sua volta proposto un testo che derivava dalle tre stampe ritenute le più significative del Canzoniere: la padovana del 1472, l'aldina del 1501 e la veneziana del 1513 per Bernardino Stagnino: praticamente dimenticato all'inizio del diciottesimo secolo, l'autografo con l'ordinamento ultimo delle rime petrarchesche (Vat. Lat. 3195) non era noto come tale né a Marsand né a Leopardi.

Oltre al progetto di una revisione critica del corpus petrarchesco, numerose altre osservazioni – soprattutto di stampo linguistico e stilistico, che testimoniano una viva attenzione alla produzione petrarchesca in volgare – precedono e seguono nello Zibaldone l'anno di stesura del commento: a partire dal 1821, con particolare attenzione ai grecismi nella lingua petrarchesca e al rapporto di Petrarca con gli antichi attorno agli anni tra il 1823 e il 1825, per arrivare – come testimonia la seconda prefazione di cui ho detto – fino al decennio successivo. Un atteggiamento che delinea da un lato un quadro di insoffererenza per un "lavoretto noioso" (così al fratello Carlo il 14 aprile del '26), fatto "senza inclinazione alcuna, per soddisfare a un libraio, che ne aspetta molto guadagno" (così invece in una lettera del 3 luglio 1826 a Papadopoli), e dall'altro un interesse profondo e senza dubbio specialistico per il medesimo oggetto di studio. Parlano in tal senso molti dati "esterni": oltre alle già menzionate riflessioni sui grecismi e la progettata edizione "critica" delle Rime (che avrebbe dovuto valutare l'attendibilità dei testi petrarcheschi e ricostituirne l'ordine macrotestuale), anche i propositi della prefazione per una "storia dell'amore del Petrarca […] che sarebbe non meno piacevole a leggere e più utile che un romanzo", o l'attenzione puntigliosa e lo zelo con cui vengono riviste le bozze del commento (testimonianza di ciò è sempre nell'Epistolario), o la preoccupazione – più volte esternata – che le note non vengano relegate in fondo al testo ma aiutino nella lettura pagina per pagina, o il ribadire la necessità di un indice conclusivo, o ancora il pronto invio di copie, che seguiva immediatamente l'uscita a stampa dei singoli tomi, agli amici più cari.




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Siamo dunque di fronte ad una sorta di divaricazione fra l'indubitabile interesse leopardiano per l'autore e l'argomento da un lato, e una più volte testimoniata difficoltà di applicazione concreta sull' "amaro e fatale Petrarca" (12 marzo 1826 all'editore) dall'altro.6 Credo allora che, per chiarirci il significato dell'operazione esegetica di Leopardi, per discutere in una cornice appropriata del tema "Leopardi commentatore di Petrarca", non si potrà fare a meno di indagare in maniera più ampia i rapporti fondamentali, intesi sia come fattori di sintonia che come elementi di distanziamento, che intercorrono tra Leopardi e Petrarca, e sulla scorta dei quali dobbiamo percepire il lavoro interpretativo del Recanatese.

1. Il primo sintagma con cui ci troveremo confrontati nell'analizzare tale rapporto Leopardi-Petrarca, e per seriorità e per portata semantica, è quello che costituisce il titolo di uno dei saggi fondatori della questione, scritto da Cesare De Lollis nel 19047: "petrarchismo leopardiano". Gli argomenti di De Lollis erano volti a dimostrare che "le derivazioni o almeno risonanze del canzoniere petrarchesco non sono rare neppure in quelle poesie dal Leopardi composte quando già poteva vantarsi e si vantava in possesso di quel che dicesi originalità".8

Sulla base di un lungo elenco di casi esemplari, che vanno dalle "reminiscenze acustiche",9 "Ma quanto a proposito!" annota De Lollis10 fino alle segnalazioni di riprese di vocaboli petrarcheschi rari e tipicamente poetici,11 il critico dimostrava come questa serie di "similarità", in luogo di sminuirla, rivelasse appieno l'originalità del Recanatese:12 il saggio si concludeva infine con la nota asserzione per cui "il Leopardi a consonanze esteriori col Petrarca è indotto da veri consensi dell'anima", ed esortava ad uno studio più approfondito, che facesse emergere "come per opera di un sismografo la notazione di vibrazioni comuni a due anime".13

Un'impostazione, dunque, che inaugurava (in qualità di capostipite di valore) quella linea critica che tende a voler individuare un petrarchismo per così dire 'persistente' nell'opera del Recanatese. Chi opti per questa linea critica – di un petrarchismo più o meno consapevole, ma che percorre tutta la produzione leopardiana – vuole in qualche modo sanare la frattura che sembra emergere attorno agli anni 1825-1826 con il compimento del commento alle Rime di Petrarca.14 Per questo motivo sia l'esempio iniziale, la lettera a Stella in data 13 settembre 1826, sia altre testimonianze di tono simile (un altro esempio si legge nell'Epistolario alla lettera 793) vengono o ignorate o lette come giudizi paradossali. A cominciare dalle note dello stesso Moroncini (editore dell'Epistolario), molti sono stati i tentativi della critica di mitigare la durezza delle affermazioni leopardiane: per Giuseppe De Robertis, ad esempio, l'operazione interpretativa delle liriche petrarchesche agirebbe sì da discrimine nell'uso cosciente del modello trecentesco, ma attraverso di essa Leopardi giungerebbe per così dire alla 'quintessenza' del petrarchismo. Il noioso commento alle Rime avrebbe insomma la funzione quasi di filtro selettivo, attraverso cui attingere ad un petrarchismo in certo qual modo più puro, che affiorerebbe come decantato dall'operazione esegetica:15

Ma questo e lungo e difficile lavoro gli fruttò, lo sciolse finalmente e tutto dal petrarchismo, di cui s'erano intinte le Canzoni, fino quella Alla sua donna, sebbene, qui, con inflessioni d'estrema finezza. Ciò che sopravvivrà, come ad esempio nel Canto notturno, sarà un fatto, più che di parole e di immagini, di certe ben ascoltate e assimilate movenze, l'aria petrarchesca, la sua musica, impalpabile toccante, una più difficile cosa insomma.




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Sulla stessa linea si muove ad esempio anche il contributo di Ettore Bonora intitolato Leopardi e Petrarca, nel volume Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento,16 il quale ritiene che solo nella maturità Leopardi "arrivasse a comprendere certi ben definiti valori dello stile petrarchesco ed anche a riviverli" (pagina 100).

Ma ecco un altro caso: terminato da qualche mese il commento, nel febbraio del 1827, Leopardi ribadisce energicamente17 la sua posizione e afferma di essere d'accordo con il conte di Chesterfield il quale aveva detto di ritenere Petrarca "a sing-song love-sick Poet", il quale "deserved his Laura better than his Lauro". Di fronte alla forza di simili affermazioni tuttavia, la linea interpretativa 'pro Petrarca' trova comunque argomenti a suo favore se, per chiudere con un esempio più recente, nell'edizione del commento leopardiano uscita per Feltrinelli,18 Ugo Dotti può  definire queste parole una semplice "ripresa del momento d'irritazione già affiorato nella lettera allo Stella" (pagina 13).

Sull'altro fronte si pongono invece i sostenitori di un leopardiano petrarchismo 'scostante'; coloro che inclinano a leggere negli anni del commento alle Rime il discrimine dell'interesse del Recanatese per il Petrarca, prendendo dunque alla lettera le affermazioni leopardiane di cui abbiamo detto. Per i fautori di questo partito sarebbe l'operazione di interpretazione della poesia petrarchesca, ad uccidere, per così dire l'ammirazione di Leopardi, portandolo ad allontanarsi dal modello, in cerca di una sua originalità.

Così è secondo Frattini,19 che nel contributo significativamente intitolato Crisi del modello petrarchesco in Leopardi intende dimostrare un progressivo allontanamento da Petrarca (rileggendo addirittura e contrario gli esempi offerti da De Lollis); Frattini però, profilando il rapporto tra i due poeti come una sorta di combattimento edipico, di lotta del Recanatese contro una tradizione fondamentale, restituisce direi suo malgrado alla poesia del padre Petrarca un ruolo di influenza costante su quella di Leopardi.20

Sulla stessa linea di rottura con il petrarchismo va senza dubbio messa  –  anche se con cautela, data la peculiarità dell'impostazione – l'interpretazione proposta da Adelia Noferi,21 per cui Leopardi diventerebbe il capostipite di una linea di rottura della tradizione petrarchista 'classica'.22 Egli fonderebbe una nuova poetica, che Noferi non esita a definire alla base di quella novecentesca, in particolare di quella ungarettiana: eppure anche in quest'ottica ci si trova a concludere che "il progressivo allontanamento dal Petrarca" da parte di Leopardi maschererebbe soltanto una "diversa angolazione dalla quale lo specchio petrarchesco restituiva al Leopardi l'immagine del proprio desiderio e della propria poesia".23

Impossibile dunque, e forse (azzardo io) inutile, sostenere il superamento definitivo del modello petrarchesco da parte di Leopardi nel corso degli anni,24 ma forse poco plausibile anche che il confronto con Petrarca rimanga nella complessità del pensiero leopardiano una inalterata pietra miliare per la costruzione della sua poetica.




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In entrambi i casi, tuttavia, risultano poco chiare le motivazioni che inducono Leopardi a produrre giudizi contrastanti su Petrarca (e non sarà  questo mio breve contributo a dire qualcosa di definitivo in merito). Certo, un'evoluzione individuabile secondo un ordine cronologico è confermata dalle affermazioni di Leopardi stesso:

[A]vendo letto fra i lirici il solo Petrarca, mi pareva che dovendo scriver cose liriche, la natura non mi potesse portare a scrivere in altro stile ec. che simile a quello del Petrarca. Tali infatti mi riuscirono i primi saggi che feci in quel genere di poesia. I secondi meno simili, perché da qualche tempo non leggeva più il Petrarca. I terzi dissimili affatto, per essermi formato ad altri modelli, o aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità.25

Ma non si tratta di un'evoluzione lineare, come parrebbe lecito dedurre da queste parole, tanto che nella già citata seconda Prefazione dell'interprete alle Rime, scritta – lo ricordo – nel 1836, il Leopardi che dieci anni prima scriveva allo Stella di non trovare in Petrarca che "veramente pochissime bellezze poetiche", offrirà un quadro diverso, affermando:

Se avessi potuto a bell'agio rivedere il Comento dall'un capo all'altro, e paragonarlo col testo, avrei fatto molte altre innovazioni: e certamente avrei scancellata ogni parola che io per baldanza giovanile lasciai scorrere, poco riverente verso il Petrarca; la stima del quale di giorno in giorno, non ostante i suoi mancamenti che tutti sanno, cresce in me tanto, quanto ella scema in qualche imbrattatore di fogli che non mi degno di nominare.26

Non fosse per quell'inciso – "non ostante i suoi mancamenti che tutti sanno" –   parrebbe una riabilitazione totale. Ma allora assistiamo ad un'evoluzione o a una frattura? ad un distacco graduale o ad un recupero tardivo? E in questo contesto quale ruolo dobbiamo attribuire al Commento? Per cercare di capirne di più non resta, oggi, che tornare ai testi.

2. Una ricerca dei passi in cui Leopardi si esprime su Petrarca, porta prepotentemente allo Zibaldone, e la lettura sequenziale degli oltre centoventi luoghi che quest'opera dedica all'argomento è senza dubbio il punto di partenza per tentare di sciogliere il complesso nodo che tiene uniti i due poeti.27 Tuttavia sarà bene prendere anzitutto in esame, tentando una prospettiva cronologica, la posizione che Leopardi esprime nei confronti di Petrarca nel suo Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, opera datata 1818: in questo testo il Petrarca emerge come esempio tutto positivo di poeta vicino alla natura, come "il maraviglioso l'incomparabile il sovrano poeta sentimentale"28 (§232), e viene classificato insieme a Virgilio niente di meno che tra i poeti "soprumani" (§§272-73). Ma nell'ottica degli sviluppi successivi non andrà sottovalutato come già questo Petrarca sia spesso presentato "per contrasto con", affiancato cioè – secondo un procedimento che vedremo in costante sviluppo – ad esempi di altra poesia, e (cosa particolarmente interessante per noi) ad esempi di poesia ottocentesca: così se egli è modello di sublime poesia sentimentale, lo è soprattutto per rapporto con i Romantici, che per sentimentale intendono una monocorde riduzione della lirica al genere patetico. Parallelamente, poi, anche il Petrarca "poeta sovrumano" è collocato in rapporto con altri esempi eccelsi, e messo in raffronto con gli antichi (come testimonia il §268 del Discorso di un italiano, ed. cit.) in una lode che se da un lato lo innalza ai massimi splendori poetici, dall'altro lo esilia in un passato di scarsa attualità (ben sintetizzato in quel "presagio doloroso" che "un Omero un Anacreonte un Pindaro un Dante un Petrarca un Ariosto appena è credibile che rinasca", §184).




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Perché una presentazione confrontativa?29 In questa sede basterà credo ricordare semplicemente che, all'altezza del Discorso siamo di fronte a quel primo Leopardi che individua, come bene ha mostrato proprio Marco Santagata in Quella celeste naturalezza,30 il suo principale modello di eloquenza politico-civile in Petrarca.

Un Leopardi che però, nel contempo, ha l'ambizione di battere nuove vie di sperimentazione letteraria, un Leopardi che già nel dicembre 181931 si lamenta con Giordani che "in Italia è morta anche la facoltà d'inventare e d'immaginare" e un Leopardi che,  in tal senso,  pare già ben lontano da un uso acritico o da un influsso passivamente subito del materiale petrarchesco. Misurare la produzione poetica dei contemporanei e la propria su quella dei grandi del passato, confrontarne gli esiti poetici, mi pare sia il procedimento attraverso il quale Leopardi cerca di comprendere entrambe le realtà, quella dei modelli antichi e quella urgente della contemporaneità.

3. Se si legga con attenzione nello Zibaldone risulterà credo innegabile come Leopardi sottoponga Petrarca, dopo una prima fase di pura ammirazione per la naturalezza della sua poesia (è inizialmente sempre collocato fra i poeti antichi, i poeti di immaginazione), ad un confronto sempre più pressante con la poetica dei propri contemporanei. E gli esiti di questo confronto sono, per il Nostro, alquanto sconcertanti: inutile per i moderni tentare di ripetere la poesia primigenia di immaginazione; la società è cambiata, è cosciente del proprio destino di infelicità: e allora:

Che smania è questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli, quando noi siamo così mutati? di ripugnare la natura delle cose? di voler fingere una facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a creare? di voler essere Omeri, in tanta diversità di tempi?32

A meglio definire la valenza di questo rapporto che Leopardi istituisce fra poesia degli antichi e poesia moderna ci vengono senz'altro in aiuto le sue affermazioni in merito ad un concetto portante della propria poetica: quello dell'eleganza della lingua. Tra la fine del 1821 e il 1822 infatti, focalizzando la propria attenzione su alcuni aspetti della grafia dei primi scrittori, aspetti rivelatori delle peculiarità orali dell'italiano antico, Leopardi moltiplica i suoi rilevamenti sulla lingua petrarchesca, anticipando quell'attenzione che sfocerà – negli anni del commento alle Rime – in un insistito studio delle relazioni tra forme greche e linguaggio di Petrarca. Con un'attenzione puntigliosa Leopardi mette in questo periodo sotto una lente da filologo il problema dell'eleganza d'espressione dei primi grandi poeti, con esiti come i seguenti:33

Una parola o frase difficilmente è elegante se non si apparta in qualche modo dall'uso volgare. [...] Quindi è che infinite parole o frasi che oggi sono eleganti, non lo furono anticamente, perché non ancora rimosse o diradate nell'uso; giacché tutto ciò ch'è antico fu moderno, e tutte le parole o frasi proprie di una lingua, furono un tempo volgari e quotidiane. [...] Da queste ragioni deriva in parte un effetto che si osserva in tutti i primitivi scrittori di qualsivoglia lingua. Essi non sono mai eleganti, bensì ordinariamente familiari.




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Accade poi (faccio riferimento al pensiero del 28 giugno 1823. ms. pp. 2836-38, che andrebbe letto per esteso) che

questi tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche ai posteri, quando le loro parole e forme, già divenute abbastanza lontane dall'uso comune, hanno pure acquistato quel che bisogna ad essere elegantissime.

Questo perché, per i motivi citati prima, le loro scelte linguistiche non furono eleganti ai tempi loro, ma "domestiche" e "familiari":

le quali cose ancora restano, e queste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, benché l'eleganza sia sopravvenuta alle loro parole e a' loro modi che non l'avevano, com'è sopravvenuta, e somma, a quei del Petrarca.

Già a quest'altezza dunque, cioè ben prima del suo commento al canzoniere, Leopardi aveva un approccio critico molto personale nei confronti di Petrarca: e non pare trattarsi di un atteggiamento ambivalente o oscillante tra affinità elettive ed avversioni, bensì di una chiara stima nei confronti di un poeta, a più riprese dichiarato grande o addirittura sublime, che va però di pari passo ad una coscienza critica sempre maggiore del ruolo fondamentalmente diverso – e delle modalità espressive altrettanto diverse che lo accompagnano – richiesto ad una poesia moderna. Una visione che fa da sfondo coerente alla necessità di un'interpretazione attualizzante della poesia petrarchesca e che, a ben guardare, riassume in sé la giustificazione teorica del commento leopardiano del 1826, la ragione della necessità di approntare un apparato interpretativo a testi di accesso non piano per le lettrici e i lettori dei secoli posteriori. La necessità di un dialogo con la realtà del presente non soltanto porta Leopardi ad interrogarsi sulle funzioni e le potenzialità di Petrarca come modello per la poesia sentimentale, ma gli fa sottolineare l'esigenza di un medium di avvicinamento – quale è appunto la glossa interpretativa – da porre a disposizione del pubblico ottocentesco (e qui potremmo aprire un lungo discorso sulla necessità di commentare i testi, anche novecenteschi o, per dirla provocatoriamente con Quondam, di tradurre Leopardi ...)

Non è infatti un caso che Leopardi avvisi con insistenza il pubblico della prima e della seconda edizione commentata delle Rime del Petrarca, che si troverà di fronte ad una "interpretazione", più che ad un "commento" al Petrarca. Nella premessa alla prima edizione scriveva:

La chiamo Interpretazione, perché ella non è un comento come gli altri, ma quasi una traduzione del parlare antico e oscuro e in un parlar moderno e chiaro, benché non barbaro, e si rassomiglia un poco a quelle Interpretazioni latine che si trovano nelle edizioni dei Classici dette in usum Delphini.




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Nella seconda premessa avrebbe ribadito il concetto parlando del suo lavoro come di un "Comento, che io chiamo più volentieri Intepretazione". Cosa intende sottolineare Leopardi con questa precisazione? Basti dire che spesso il termine "interpreti" è associato nello Zibaldone a quello di "grammatici"34 e che nella stessa opera si riflette ampiamente sull'etimologia della voce "commentare" : "commentare da commentus di comminisci" (Zibaldone, ms. 1108, ma cfr. anche 3235 e 3985): la voce "commento", sottolinea Leopardi, deriva dal frequentativo del verbo comminisci che indica immaginare, ideare o cose non vere, o cose non ancora esistenti, e mostra dunque di per sé di contenere un'accezione del termine che poteva infastidire il filologo. Il valore del termine interpretazione invece è per il Nostro molto più strettamente legato alla lettera del testo, e in certo senso più vicino a quello di >I>traduzione che non a quello di commento. E se la traduzione è per Leopardi una complessa trasposizione da una lingua ad un'altra, l'interpretazione potrebbe dirsi una almeno altrettanto complessa trasposizione di concetti da un'epoca ad un'altra (e forse anche da un poeta ad un altro). Sono perciò convinta che l'attenzione leopardiana all'interpretazione-traduzione del Petrarca, al di là dell'aspetto pedagogico formale (il testo è espressamente dedicato alle classi per eccellenza bisognose di istruzione: stranieri, giovani e, ovviamente, donne ...), nutrisse serie ambizioni filologiche e letterarie. Del resto, contrariamente a chi l'avrebbe giudicato in seguito, non credo che Leopardi avvertisse come sminuente il suo intento "sempre di scrivere per le donne e gli stranieri" (così nella prima prefazione): lui stesso – come ho avuto occasione di constatare in prima persona studiando le sue produzioni filosofiche giovanili35 – si era giovato negli anni della sua formazione di testi espressamente dedicati a tale pubblico, traendone profitto. Lo stesso paragonare il proprio operato a quello dei chiosatori di testi antichi ci fa capire che, lungi dal considerare il suo un lavoretto puramente divulgativo, Leopardi fosse cosciente del valore della sua puntigliosa ricerca sulla lettera petrarchesca. Basti leggere, nella stessa lettera a Stella citata in apertura, con quale calore e con che toni di orgoglio Leopardi difende il suo lavoro di commento da alcune critiche che gli erano state mosse:

Qui in Bologna, in Romagna e in Toscana, non solo le donne, ma i primi letterati hanno fatto un'accoglienza diversa a quel mio comento; non l'hanno giudicato indegno del loro proprio uso; hanno detto che non era possibile di spiegare un autore né più pienamente e chiaramente, né con più risparmio di parole; ed alcuni mi hanno confessato di avere, coll'aiuto di quello, intesi per la prima volta parecchi luoghi che fino allora, non avevano intesi mai, o vero avevano intesi a rovescio. Infine sono arrivati a dire che quello dovrebbe servir di modello a tutti i comenti; […].36

4. È allora in quanto serio campo di prova per il filologo e per il poeta (un poeta che, proprio in quegli anni – lo ricordo – resta silente) che l'interpretazione delle Rime segna un punto focale per la concezione leopardiana della poesia petrarchesca. Per meglio comprenderne la valenza dovremo ora interrogarci sul modo di procedere adottato da Leopardi nella sua interpretazione. Contini ha parlato dell'ideale esegetico leopardiano come di qualcosa "d'un raro e, mettiamo pure, desolato rigore illuministico, volto a una totale semanticità della lingua al di fuori di ogni storia." Qualcosa che "[...] si limita a trasferirne la lettera nella prosa di un'altra acronia, sfrondata di qualsiasi armonica evocativa e sentimentale, e anche sottratta al privilegio di lingua speciale, al monopolio letterario [...]".37




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In questo secco giudizio è paradossalmente contenuta la vera natura dell'interpretazione leopardiana: un'operazione che, quasi una sorta di attenta traduzione semantica, mira sì a ridurre in prosa i nuclei poetici, ma proprio con lo scopo di farne risaltare la poeticità. Leopardi esprime questo concetto con la solita lucidità nel liquidare in due righe una recensione negativa trasmessagli dall'editore (il torinese Angelo Brofferio ne era l'autore):

Egli ha veduto che io alcune volte noto i casi dei nomi o i generi dei verbi ec. e ciò è quando a prima vista non s'intende se il caso sia accusativo o nominativo, se il verbo sia attivo o neutro, ec. Il notar queste cose mi serve allora per rischiarare il passo in un batter d'occhio. Ma egli ha creduto che il notassi per insegnar la grammatica. (lett. citata sopra, del 13 sett. 1826 a Stella).

Ad es. Leopardi glossa così la prima parola del Canzoniere: Voi (ch'ascoltate in rime sparse il suono): "O voi. Vocativo". Del resto la lingua di Petrarca, detta da Leopardi, con scandalo di alcuni "antica" (Prima prefazione) ha bisogno di essere chiarita: con elegante ironia Leopardi stesso lo dice bene nella sua Scusa dell'interprete, apposta in coda al testo: "A chi mi dice che il Petrarca non è oscuro, domando perdono e rispondo che il sole non è chiaro, e prometto di provare il mio detto immantinente che egli avrà provato il suo".

Al fine di chiarire questa lingua petrarchesca, e di avvicinarla al lettore moderno, nella sua operazione interpretativa Leopardi insiste principalmente su due strategie – utilizzate anche a livello fraseologico – in cui opera "passando di regola dalla sintesi all'analisi" (come dice R. M. Ruggieri)38 e si occupa cioè in particolare di trovare sinonimi e parafrasi che gli permettano di 'tradurre' il testo petrarchesco. Apponendo quelle note al testo che furono a volte accusate di pedanteria, egli si sofferma allora in particolare a spiegare gli usi metaforici e le inversioni sintattiche di Petrarca e si può vedere un bell'esempio di questo modo di procedere nel caso del sonetto 8 dell'edizione a c. di Marco Santagata del Canzoniere petrarchesco, A pie' de' colli ove la bella veste, in cui la parafrasi leopardiana è accolta per esteso (1996: Milano (Mondadori), 41-43).

A questo medesimo procedimento trascrittivo-interpretativo è da ricondurre a mio avviso anche l'operazione di rifacimento della punteggiatura dei testi, operazione che a detta dello stesso Leopardi, costituisce "opera assai tediosa a fare, ma che può essere quasi un altro comento".39 Estremamente puntiglioso nei confronti dell'interpunzione, sin dalle sue prime prove di scrittura e per sua stessa ammissione, Leopardi usa la punteggiatura esattamente con lo stesso intento interpretativo con cui procede nelle sue annotazioni: cercando cioè di avvicinare il testo alle sue destinatarie e ai suoi destinatari, di guidare chi legge in maniera semplice ed efficace (diversamente dalla maggior parte dei commenti che sono, dice Leopardi, "parte più oscuri del testo [...] parte lunghissimi [...] e tutti passano sotto silenzio, quale un buon terzo, quale una buona metà, quale almeno due terzi dei luoghi oscuri").

In questa prospettiva di lettura mi sembra di notevole rilievo la focalizzazione leopardiana sul discrimine linguistico,40 segno evidente che l'attenzione per la forma espressiva, componente base su cui costruire una poesia moderna e viva, permane al centro dell'attenzione del Leopardi del Commento. Leopardi fa parlare Petrarca attraverso una riscrittura puntuale dei suoi nuclei poetici, e lo sottopone nuovamente ad una sorta di confronto, stavolta con la propria sensibilità di poeta ottocentesco. Non a caso, infatti, l'operazione di trasposizione narrativa operata da Leopardi sulla poesia di Petrarca ricorda per contrasto (e come tale è ad essi suggestivamente affiancata da Adelia Noferi) gli abbozzi in prosa che precedono la stesura poetica dei Canti: le sequenze sinonimiche del commento al Petrarca sono accostate in maniera simile a quella delle varianti della prosa che precede la stessa poesia leopardiana. Ciò a dire in che misura il poeta commentato parli al poeta commentatore. (Sul rapporto tra la lingua del commento e i Canti leopardiani si veda il bello studio di Marini, Antonella  (1988): "Segni della poetica leopardiana nel commento alle Rime di Petrarca, in: Rassegna della Letteratura Italiana 92, 61-76).




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5. Il rifiuto leopardiano di Petrarca, così come documentato dai brani del periodo immediatamente successivo al commento delle Rime, non può dunque essere letto attraverso spiegazioni di carattere psicologico come quelle che ho citato in apertura: questo tipo di argomentazione infatti, se pure si fonda su insofferenze e lamentele reali, d'altro canto non rende giustizia delle approfondite riflessioni zibaldoniane da un lato né della serietà del lavoro interpretativo dall'altro. Se osservazioni negative su Petrarca ci sono – e ci sono – vanno lette come una presa di posizione cosciente. Il fastidio del poeta-interprete per le Rime di Petrarca, più che il tedio di un lavoro poco interessante, esprime – io credo – insoddisfazione per l'impossibilità di trasferire con l'efficacia voluta la poesia petrarchesca in poesia leopardiana. In tal senso il Commento segna una svolta nella messa a fuoco di alcuni nodi fondamentali della riflessione poetica di Leopardi, riflessione che va sempre più concentrandosi sulla ricerca di una poesia per il proprio tempo, di un liguaggio originale, di un'espressione altamente poetica e insieme classicamente semplice.

La lingua e l'espressività petrarchesca, già connotate come 'familiari' per le ragioni intrinseche di cui abbiamo detto, pressate dalla riflessione leopardiana ad un confronto con la contemporaneità storica da un lato e le nuove esigenze espressive dello stesso commentatore-poeta dall'altro, non sembrano capaci di assumere appieno il ruolo "peregrino e vago" che compete alla parola poetica secondo Leopardi, né la loro "traduzione" è riuscita ad eliminarne appieno la componente di "quotidianità" e a metterne in luce le controverse "bellezze poetiche". Contribuisce poi a questa perdita di tenuta del modello petrarchesco (ma questo aspetto meriterebbe un discorso a sé), la rigidità delle forme metriche adottate da Petrarca (e basti qui menzionare il caso del sonetto, aborrito da Leopardi, almeno nella sua forma dichiaratamente strutturata): insomma, più l'analisi si approfondisce e il commentatore moderno avvicina il poeta antico, maggiormente si avvertono le mancate corrispondenze di quest'ultimo con l'idea leopardiana di poesia moderna. A ridurne ulteriormente la portata semantica per il poeta Leopardi sarà poi ancora la riflessione sul ruolo avuto dai Petrarchisti, per opera dei quali "il Petrarca, tanto imitato, di cui non v'è frase che non si sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli stesso un imitatore". E questa potrebbe essere una riflessione tratta, come quelle citate in merito alla familiarità di Petrarca, dagli inizi dello Zibaldone: in realtà (ma forse, dopo quanto abbiamo detto, la cosa non sorprende più di tanto) il pensiero è dell'aprile del 1829, e si colloca tra le ultime pagine dell'opera.41

6. Concludendo, quindi, direi che non 'in luogo' della dichiarata ammirazione giovanile, ma 'accanto' ad essa, si fa strada una nuova prospettiva critica, per cui a Leopardi preme con sempre maggiore insistenza di scoprire se e quale valore possa avere la poesia di un grande come il Petrarca per il tempo moderno. Dove si vede chiaramente cosa cercasse Leopardi in Petrarca, e nello stesso tempo, cosa non potesse ritrovarvi: del materiale (inteso principalmente come materia di lingua poetica) che fosse trasferibile, dalla compiutezza classica del Petrarca nella dinamica realtà della polemica classico-romantica, nel secolo svezzato dal predominio della ragione.

In tal senso allora ridimensionerei quella frattura individuata negli anni tra 1825 e 1826 nel giudizio sul Petrarca: se ad una lettura che lo spinga verso l'attualità Petrarca cede, la sua opera poetica, considerata nell'assolutezza della sua collocazione tra gli antichi, resta un esempio eccelso, da cui imparare. Sintomatica mi pare infine, a questo proposito, la scelta degli autori presenti nella Crestomazia leopardiana, opera la cui ideazione si intreccia con la fine dell'Interpretazione delle Rime (la raccolta prosastica è infatti del 1826-27): nella prefazione al tomo dedicato alla poesia, del settembre 1828, Leopardi parla con toni di alta ammirazione del Petrarca e della sua poesia, ma ... non ne antologizza nemmeno un brano.




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Note:

1 Leopardi, Giacomo (1938): Epistolario, nuova edizione ampliata a c. di Francesco Moroncini, Firenze (Le Monnier), IV, lettera 971, 175-78.

2 Cfr. ad esempio il pensiero dell'8 novembre 1821, ms. 2185.

3 Bianchi, Dante (1914): "Giacomo Leopardi commentatore del Canzoniere", in: Giornale Storico della Letteratura Italiana LXIII, 321-339. È uno dei primi tentativi di analisi del Commento leopardiano.

4 Petrarca, Francesco (1899): Le Rime di Francesco Petrarca di sugli originali, commentati da Giosuè Carducci e Severino Ferrari, Firenze (Sansoni).

5 Cito dall'edizione: Leopardi, Giacomo (1988):  Poesie e prose, a c. di Rolando Damiani, Milano (Mondadori) II, 987-995 dove sono riprodotte le prefazioni e i materiali all'edizione delle Rime.

6 Una frattura che è ben esemplificata in parecchie occasioni, e – per citare un altro esempio significativo – ancora una volta proprio a ridosso del commento (siamo nei primi mesi del 1827) dalla traduzione, intrapresa su incarico del nobile triestino Domenico De' Rossetti di Scander, conosciuto a Milano nel '25, dell'epistola petrarchesca Impia mors, abbandonata dopo un primo tentativo, malgrado Leopardi lo conoscesse come uomo "molto ricco" e disposto a pagare "volentierissimo quando sarà di bisogno", cfr. Leopardi, Giacomo (1938), cit., lettera del 17 settembre 1825 a Francesco Cassi. (Su questa epistola petrarchesca cfr. Di Feo, Michele (1978): "La traduzione leopardiana di Petrarca Epyst. II", in:  Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, Atti del IV Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1976), Firenze (Olschki) , 557-601).

7 De Lollis, Cesare (1929): "Petrarchismo leopardiano", in: Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento, a c. di Benedetto Croce, Bari (Laterza), 1-33.

8 Ibidem, 4.

9 Ivi.

10 Ibidem, 9.

11 Un bell'esempio è quello dell'espressione 'nel fiore dell'età / nel fiore degli anni', che "ha ancora presso il Petrarca qualcosa di peregrino che il Leopardi gli sa stupendamente serbare nella classicità del suo contesto" (Ibidem, 10, alludendo all'uso dell'espressione in A Silvia e ne Il Sogno; per Petrarca, cfr. RVF 268, 39). Lo stesso è detto dell'arcaismo etade ('in verde etade' del Petrarca di RVF 315, 1; in Leopardi ne La sera del dì di festa) e di altri arcaismi ('tempo' per 'età', 'alma' per 'anima', 'essere il miglior' per 'è meglio'). Del caso dell'espressione 'porre in terra le membra' per 'morire' (in Amore e Morte, 85 e in RVF 36, 4), De Lollis avverte, con una chiosa molto pertinente: "Così l'arcaismo diventa in mano al Leopardi spediente di naturalezza" (De Lollis 1929, 12).

12 Un'analisi parallela, ma dedicata allo studio di problemi di metrica, scolgeva in quegli anni anche: Vossler, Karl (1903): "Stil, Rhythmus und Reim in ihrer Wechselwirkung bei Petrarca und Leopardi", in: Miscellanea di studi critici in onore di Arturo Graf, Bergamo (Istituto di arti grafiche).

13 De Lollis, Cesare (1929), 31.

14 Si farà qui sempre riferimento a: Petrarca, Francesco (1989): Rime di Francesco Petrarca con l'interpretazione di Giacomo Leopardi, migliorata in vari luoghi la lezione del testo, e aggiuntovi nuove osservazioni per cura dell'editore. Ristampa anastatica dell'edizione Le Monnier 31851, con introduzione di Giovanni Nencioni, Firenze (Le Monnier ).




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15 De Robertis, Giuseppe (1937): "Saggio sul Leopardi", in: Leopardi, Giacomo (1937):  Opere, Milano (Rizzoli), 117; poi 1946 Firenze (Vallecchi),190-191.

16 Bonora, Ettore (1978): "Leopardi e Petrarca", in: Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, cit.,  91-150.

17 Zibaldone, pensiero del 27 febbraio 1827 (ms. 4249).

18 La prima edizione è del 1979.

19 Frattini, Alberto (1978): "Crisi del modello petrarchesco in Leopardi", in: Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, cit., 617-31.

20 Escluderei infatti "l'uccisione del padre" come una possibile soluzione al problema, dato che, come Frattini stesso non nega, il confronto con Petrarca non si risolve, anzi, prosegue ben oltre la stesura del commento alle Rime e ai Trionfi.

21 Noferi; Adelia (1979): "Petrarca in Leopardi e la funzione di un commento", in: Il gioco delle tracce: studi su Dante, Petrarca, Bruno, il neo-classicismo, Leopardi, l'informale, Firenze (La Nuova Italia Editrice), 299-328.

22 La stessa tesi era già stata avanzata, sebbene in maniera  meno probante, in: Frattini, Alberto (1975): "Leopardi e Petrarca", in: Italianistica IV, 304-315.

23 Noferi, Adelia: "Petrarca in Leopardi", cit., 327.

24 Superamento che è invece detto radicale, e letto senza mezzi termini, ad esempio nel recente contributo di Heintze, Horst (1992): "Zu Leopardis Petrarcaverständnis", in: Giacomo Leopardi: Rezeption – Interpretation – Perspektiven.  Akten der ersten Jahrestagung der Deutschen Leopardi-Gesellschaft (Bonn-Köln, 9.-11. November 1990), hrsg. von H. L. Scheel und M. Lentzen, Tübingen (Stauffenburg Verlag), 101-108.  Si veda anche il recente contributo di Luca Barbieri (1988): "Sul Leopardi interprete delle 'Rime' petrarchesche", in: Terzo quaderno veronese di filologia, lingua e letteratura italiana, 103-120.

25 Zibaldone, pensiero dell'8 novembre 1821 (ms. 2185).

26 Prefazione dell'interprete, in: Petrarca, Francesco (1989), cit., 15-16.

27 Non tutti i luoghi dello Zibaldone in cui Leopardi cita Petrarca sono dedicati ad esaminarne la poetica: molto spesso le questioni per cui egli è chiamato in causa riguardano problemi linguistici (ad esempio per l'uso dei grecismi, ecc.). In questa analisi si prendono in considerazione particolarmente quei brani dedicati alla poetica di Petrarca, meglio se in riferimento esplicito a quella leopardiana. Per un elenco completo delle occorrenze zibaldoniane che concernono Petrarca, si è consultato, oltre agli ampi indici analitici delle due ultime edizioni – Leopardi, Giacomo (1991): Zibaldone, edizione critica a c. di Giuseppe Pacella, Milano (Garzanti),  3 voll.  e Idem (1997), a c. di Rolando Damiani, Milano (Mondadori), 3 voll. – anche il CD-Rom della Letteratura Italiana Zanichelli, versione 3.0.

28 Seguo la numerazione per paragrafi di Leopardi, Giacomo (1988): Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, edizione critica a c. di Ottavio Besomi e al., Bellinzona (Casagrande).

29 Anche nei primi pensieri dello Zibaldone, databili proprio attorno a quegli anni il fenomeno è evidente: "Quell'affetto nella lirica che cagiona l'eloquenza, e abbagliando meno persuade e muove di più, e più dolcemente massime nel tenero, non si trova in nessun lirico, né antico né moderno se non nel Petrarca, almeno almeno in quel grado" (Zibaldone, pensiero del 1818, ms. 23).

30 Santagata, Marco (1994): "Petrarca e Orazio: due maestri per l'oggi", in: Quella celeste naturalezza: le canzoni e gli idilli di Leopardi, Bologna (Il Mulino), 45-66.




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31 Lettera da Recanati in data 10 dicembre 1819; cfr. Leopardi , Giacomo (1938), cit., lettera 239.

32 Zibaldone, pensiero dell' 8 marzo 1821 (ms. 725-728).

33 Zibaldone, pensiero del 30 settembre 1821 (ms. 1807-1810).

34 Cfr. "i grammatici e gli interpreti" di Zibaldone 2790, 2792 e 2868 del ms.

35 Uno studio delle prime fonti leopardiane si trova nelle edizioni seguenti, a cui mi permetto di rinviare: Leopardi, Giacomo (1995), Dissertazioni filosofiche, ed. critica e commentata a c. di Tatiana Crivelli, Padova (Antenore) e Idem (1996), Dialogo filosofico, a c. di Tatiana Crivelli, Roma (Salerno Ed.)

36 Leopardi , Giacomo (1938), cit., lettera 971, 176.

37 Contini, Gianfranco (1970): "Il commento petrarchesco di Carducci e Ferrari", in: Varianti e altra linguistica, Torino (Einaudi), 638.

38 Per questa e la citazione successiva si veda l'interessante studio, che mi risulta purtroppo rimasto senza l'annunciato seguito, di Ruggieri, Ruggero M. (1978): "Sinonimia e parafrasi nel commento leopardiano al canzoniere di Petrarca", in: Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, cit., 759-70 [767].

39 Leopardi nella Prefazione alle Rime di Francesco Petrarca, in Petrarca, Francesco (1989), cit., 15.

40 Leopardi mette a fuoco le fondamentali diversità tra la lingua poetica e lingua prosastica (in merito al rapporto tra lingua poetica e lingua prosastica si può leggere nello Zibaldone il lungo pensiero del 23 luglio 1823, ms. 3009-3019).

41 Zibaldone,pensiero del 20 aprile 1829 (ms. 4491).